Dodici anni fa la “rivolta” dei migranti a Rosarno

La lettura del nostro Parroco nelle pagine de IL QUOTIDIANO. A 12 anni di distanza dalla cosiddetta “rivolta di Rosarno” del gennaio 2010 avrei preferito scrivere in positivo, fare una narrazione diversa sulla situazione  dei migranti nella Piana di Gioia Tauro.

Mi trovo invece ancora una volta costretto a fare una spietata analisi, sostanzialmente in negativo.

Parole generiche, infatti, e mai progetti concreti di accoglienza vera e propria. Sperpero di denaro pubblico con iniziative sporadiche senza nessuna progettualità a lungo termine, mirate solo a “tappare” l’emergenza, che in realtà è diventata sempre più “normalità”.

È questo lo  scenario dentro il quale si muovono ancora migliaia di migranti, alcuni ormai “stanziali” e altri che ogni anno, da più decenni, vengono in questi luoghi della Piana di Gioia Tauro in cerca di un lavoro (quello nei campi per la raccolta degli agrumi), che peraltro di anno in anno diventa sempre più fatiscente.

Fabrizio De Andrè di fronte a questo  scenario canterebbe certamente ancora: “Prima pagina, venti notizie. Ventuno ingiustizie e lo Stato che fa. Si costerna, s’indigna, s’impegna. Poi getta la spugna con gran dignità”.

La storia delle tendopoli- baraccopoli – tendopoli che si succedono in forma ciclica dal 2010 è purtroppo parte integrante di quella storia più grande e sempre più triste che è la storia dell’Italia dei ghetti, dei campi profughi e dei campi rom.

Una storia di discriminazioni, di persone emarginate, ”segregate”, bloccate sempre più in uno spiraglio di degrado, di esclusione, di violazione dei diritti umani  fondamentali.

E così dal 2010 ad oggi nulla è cambiato per i migranti cosiddetti “economici” della Piana di Gioia Tauro, terra già “emarginata”, terra dove già vivono “uomini senza”, senza quei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione del nostro Paese e dove i migranti si trovano ad essere l’anello più debole.

Le varie tragedie di questi anni, i vari roghi, la morte di Becky Moses, di Moussa Ba e di altri “dannati”, la scomparsa di tanti “invisibili”, i tanti episodi delinquenziali legati in qualche modo alla ndrangheta e alle mafie straniere presenti all’interno dei migranti stessi, l’anarchia completa che, eccetto qualche breve periodo, è regnata  all’interno delle tendopoli/baraccopoli unitamente allo sfruttamento lavorativo sono l’immagine più eloquente delle condizioni di vita dei migranti della Paina di Gioia Tauro.

Condizioni di vita leggermente alleviate da chi in questi anni si è sporcato le mani a fianco a questi sventurati. Mi riferisco a rappresentanti delle Istituzioni ( prefetti, questori, sindaci), delle forze dell’ordine, del volontariato cattolico e laico, dell’associazionismo e del sindacato. Persone tutte che in qualche modo si sono fatto carico di una triste situazione di sofferenza, nel silenzio e nella sordità di chi invece avrebbe dovuto impegnarsi a pieno titolo.

Una cosa, infatti, credo sia certa: l’emarginazione dei migranti nella Piana di Gioia Tauro è una scelta voluta e consapevole.

Da qui, allora, la necessità di voltare pagina cambiando radicalmente la politica attuale a livello nazionale e regionale nei confronti delle  migrazioni.

In modo particolare, senza entrare nei dettagli, come già detto più volte, la partita si gioca su due fronti: assicurare ai migranti un alloggio decente ed un lavoro “vero ”e non un lavoro ”nero”.

Le proposte sul tappeto, ultima la proposta della creazione di alcune “foresterie stagionali”,  sono tante, e sono ben note.  Alcuni strumenti, anche  legislativi relativamente al lavoro nero e al caporalato già ci sono.  Manca solo la volontà politica di agire con determinazione.

Ma non basta tutto questo. C’è bisogno, in modo prioritario, di una elaborazione “culturale” del problema.  I migranti non sono un peso, ma una ricchezza. Le agenzie educative e le organizzazioni di categoria, queste ultime di fatto “latitanti” in questi anni, devono ancora molto lavorare per aiutare le persone ad un cambiamento di mentalità, per una convivenza alla quale ancora  ancora non si è pronti. Si è fatto un certo cammino, ma è ancora molto lontana l’ accettazione della diversità, soprattutto dell’accettazione del “nero”, rispetto al “bianco”.

Anche qui dobbiamo passare dalle parole, dalle buone intenzioni ai fatti. Tutti siamo chiamati in causa per continuare una battaglia che deve essere quotidiana, perché sulla dignità delle persone non si tratta.

 

Don Pino Demasi

Parroco in Polistena

Referente territoriale di Libera

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